Con l’addio di Ranieri, il Leicester di Shakespeare si è velocemente trasformato in una San Junipero della stagione 2015/16, un ritorno nostalgico ai fasti dell’anno passato nell’illusione che rimarranno lì per sempre. In questa ricostruzione fittizia del 4-4-2 della scorsa stagione, un ruolo sempre più importante lo sta ricoprendo Wilfred Ndidi, arrivato nel mercato di riparazione dal Genk per riempire il vuoto emotivo e tecnico lasciato da Kanté.
In realtà Ndidi è molto diverso da Kanté, nonostante risponda come il francese all’esigenza di garantire il recupero immediato del pallone su porzioni di campo molto grandi per permettere alla squadra di rimanere il più possibile corta sul campo. Il nigeriano sfiora il metro e novanta (venti centimetri esatti in più di Kanté) e ha un baricentro molto alto, caratteristiche fisiche che gli impediscono di ricoprire il 30% della superficie terrestre con lo stesso dinamismo e velocità del centrocampista del Chelsea.
Ndidi è però anche un giocatore dalle ambizioni tattiche e tecniche se vogliamo più complesse, che aggiunge a una applicazione maniacale nel recupero del pallone ornamenti più ricercati, come il tiro dalla distanza. Per dire, una volta col Genk ha tirato un pallone sotto il sette al volo a una velocità intorno ai 110 chilometri orari.
Con il Leicester ha segnato già due gol in questo modo e l’ultimo, contro lo Stoke City, nell’ultima giornata di campionato, può essere preso come piccola sineddoche delle sue caratteristiche.
Ndidi è un giocatore che cerca di compensare lo scarso dinamismo fisico, che gli dà diversi problemi nella copertura della profondità, prevedendo le linee di passaggio avversarie, con una precisione e un tempismo già molto buoni. Il gol in questione, ad esempio, nasce da una rimessa laterale dello Stoke nei pressi della trequarti del Leicester. Il centrocampista nigeriano accorcia il campo in zona palla in anticipo, prima raddoppiando su Berahino e poi anticipando lo stesso attaccante inglese sul controllo sbagliato da Gray.
Anche nell’uno contro uno Ndidi non è un giocatore banale, e utilizza le sue lunghe leve come tentacoli per sottrarre il pallone dai piedi degli avversari. In questo caso si stende sull’erba come in un passo di break dance per sporcare lo stop di Arnautovic, ma alla fine riesce addirittura a colpire il pallone facendoglielo passare tra le gambe per recapitarlo ad Albrighton.
L’influenza sulla costruzione del possesso di Ndidi è praticamente pari a zero, col suo contributo che nel migliore dei casi si sostanzia nel passare il pallone recuperato al compagno più vicino, ma che a volte può anche ridursi a spostarsi per far passare Mahrez. Qui Albrighton praticamente fa tutto da solo: forza la verticalizzazione per l’ala algerina perdendo temporaneamente il pallone, che poi recupera pressando in avanti il timido tentativo di impostazione dello Stoke.
Dopo un confuso fraseggio sulla fascia destra, la palla torna finalmente a Ndidi, che la sta aspettando, statico, da solo al centro del campo. Sul passaggio anemico di Simpson cerca di tornare Walters, ma ancora una volta Ndidi dimostra di avere una complessità tecnica che solitamente non si addice a un mediano di fatica, e di cui per esempio è privo Kanté.
Il centrocampista nigeriano, infatti, allunga leggermente il primo controllo per mettere il corpo tra la palla e il ritorno dell’attaccante dello Stoke. A quel punto la rincorsa è già carica e il tiro che ne consegue è anche un modo per evitare la chiusura di Allen, che aveva cercato di sfruttare lo stop lungo per accorciare su di lui. La pulizia e la potenza del tiro, però, rivelano una consapevolezza del mezzo tecnico che va molto al di là della semplice paura di perdere il pallone.
Ndidi non è Kantè, e anche per questo motivo il Leicester non potrà mai tornare indietro alla passata stagione. Ma questo non vuol dire che debba solo perderci qualcosa.